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LIB(e)RO PENSIERO n.13 – Quell’uomo doveva morire

<< C’è una frase, quella pronunciata la mattina del 16 marzo dal presidente del Consiglio Andreotti, durante la riunione del consiglio dei Ministri, che è la vera chiave per comprendere l’atteggiamento tenuto dal governo italiano in tutti i cinquantacinque giorni del sequestro Moro. Di fronte al rapimento di Moro, Andreotti sollecita tutte le forze politiche a mantenere “comportamenti politici adeguati alla gravità della situazione”.

Rinvenimento cadavere MoroIn queste poche parole si condensa la cosiddetta “linea della fermezza”. In seguito, Cossiga chiarirà, davanti alla Commissione Moro, che la frase pronunciata da Andreotti, d’intesa con lui, significava: “vietare decisamente lo scambio dell’onorevole Moro con persone imprigionate e ogni atto che implicasse un riconoscimento politico del BR, intravedendo in questi comportamenti una capitolazione dello Stato”.

Uomo di enorme esperienza e abilità politica, Andreotti era subentrato a Moro come presidente nazionale della Fuci, l’organizzazione degli universitari cattolici […]. Aveva nel tempo occupato tutte le principali posizioni di governo, detenendo la carica di ministro della Difesa per sette anni consecutivi, dal 1965 al 1972. Cosa che Moro, durante la prigionia, metterà in rilievo nel suo Memoriale. Andreotti, lo stesso 16 marzo 1978, realizza subito le condizioni per un controllo minuzioso delle indagini di polizia giudiziaria, stabilendo uno strettissimo coordinamento di tutte le forze dell’ordine. Una decisione che, come i fatti dimostreranno, prelude a uno stretto controllo delle attività della magistratura romana.

andreotti e moroIn quei tremendi cinquantacinque giorni furono consentite solo operazioni di facciata dispersive, con enorme spreco di uomini e mezzi, con il risultato del blocco effettivo di tutte le indagini. Da Andreotti non venne mai, fin dall’inizio del calvario Moro, una sola parola di pietà o solidarietà verso il collega prigioniero e la sua famiglia, nè una esortazione alle forze dell’ordine a intensificare gli sforzi per trovare la prigione e liberare l’ostaggio. Per giustificare la sua strategia di assoluta intransigenza, sosterrà di essere stato da sempre per la linea dura…

[…]

Andreotti ebbe il coraggio di smentire Moro quando lo stesso, a proposito del caso Sossi, nella prigione del popolo confermò alle BR che la sua posizione era stata favorevole alla trattativa. In accordo con Taviani, Andreotti sostenne invece che non era vero quello che Moro aveva detto ai suoi carcierieri perché “è accertato con assoluta certezza che, viceversa, durante quel periodo, tutto il governo era stato per la linea dura”.

Due le conclusioni di Andreotti: Moro mentiva dalla prigionia perché non era lui, era un altro nelle mani delle BR. Moro era stato sempre per la linea della fermezza. Bugie che sarebbero state smentite nettamente da Giuliano Vassalli, che di Moro era amico fraterno e collega in quanto prefessore universitario.

Andreotti, dopo aver avvallato la ignobile operazione lago della Duchessa, cercò di ricavarne anche l’aureola di martire, dicendo: “l’atteggiamento di fermezza che noi avevamo era un atteggiamento che sapevamo e sappiamo vale anche per noi. Quindi non era un atteggiamento che valeva per Moro e che era diverso per qualcuno di noi che potesse essere messo nelle stesse circostanze”.

Andreotti cercò di giustificare la sua fermezza, evocando Berlinguer, ma tacendo che il capo del PCI aveva sostenuto una fermezza attiva e dinamica, protesa verso la salvezza di Moro. E la necessità, prioritaria, di fare tutto il possibile per trovare la prigione del leader DC.

[…]

Di fronte agli attacchi che Moro gli aveva esplicitamente lanciato nelle sue missive dalla prigione, Andreotti affermerà di non avere dubbi sulla matrice degli attacchi i cui autori erano “le Brigate rosse e non il mio amico Moro. Alcune delle lettere provenienti dalla prigione erano delle manifeste falsificazioni”.

cossiga e moroCossiga era stato sulla stessa linea dell’intransigente immobilismo voluta da Andreotti.

[…] Non si fece assolutamente nulla per salvare la vita di Moro. Cossiga, come Andreotti, si trincerò dietro la ragione di Stato…[…] e concluse che non si poteva cedere perché la sorte di Moro era già segnata: “seguire un’altra strada non avrebbe portato alla liberazione dell’onorevole Moro”.

[…]

Oggi sappiamo qual’era il senso dell’accordo tra i due politici al vertice del potere: l’immobilismo spacciato per fermezza. E seppero, con l’appoggio di una stampa servile e bugiarda, salve poche eccezioni, neutralizzare il leader DC, facendolo passare per pazzo. Cossiga e Andreotti sorridonoMentre costui dalla prigionia sapeva che, fallite le trattative, la sola sua speranza di sopravvivere era legata alla scoperta della prigione da parte delle forze dell’ordine: il suo interesse era quello di guadagnare tempo. Moro cercò di temporeggiare, al contrario di quello che fecero Andreotti e Cossiga.

E’ illuminante quello che scriverà al riguardo Sciascia nella sua Relazione di minoranza alla Commissione Moro: “Si era stabilita un’atmosfora, uno stato d’animo in ciascuno e in tutti (con delle sparute eccezioni) si insinuava l’occulta persuasione che il Moro di prima fosse come morto e che trovare vivo il Moro altro quasi equivalesse a trovarlo cadavere nel portabagagli di una Renault. Si parlò dapprima, a giustificare il contenuto delle sue lettere, di coercizioni, di maltrattamenti, di droghe; ma quando Moro cominciò insistentemente a rivendicare la propria lucidità e libertà di spirito – tanta lucidità quanta può averne chi è da quindici giorni in una situazione eccezionale, che non può avere nessuno che lo consoli, che sa che cosa lo aspetti – si passò a offrire, compassionevolmente, l’immagine di un Moro altro, di un Moro due, di un Moro non più se stesso: tanto da credersi lucido e libero mentre non lo era affatto”.

[…]

Berlinguer affermò ripetutamente che occorreva “scoprire la prigione, liberare Moro e catturare i colpevoli”, l’esatto contrario di ciò che fece il governo, impegnato, come scrisse Sciascia, solo in operazioni di parata. Al punto che il 1 maggio 1978, Berlinguer esprimerà ad Andreotti un giudizio fortemente critico sull’impiego delle forze di polizia e dei servizi di sicurezza.

[…]

Tra le vie per salvare Moro evocate da Berlinguer poteva rientrare anche il compimento di un atto unilaterale come la liberazione di almeno un terrorista detenuto, quella della Besuschio (una terrorista malata e mai imputata di fatti di sangue) o di Buonoconto. […]

In un incontro avvenuto a Reggio Emilia il 17 luglio 2007, Prospero Gallinari, uno dei carcerieri di Moro, alla domanda se era vero che le Brigate rosse avrebbero comunque ucciso Moro e che quindi avrebbero rifiutato qualsiasi proposta, risponde:” E’ assolutamente falso. Noi davamo per scontato che quella era una battaglia la cui conclusione doveva dare dei risultati, perché non andavi ad ammazzare cinque persone in una strada per poi chiudere la cosa così a tarallucci e vino. Se Buonoconto fosse stato scarcerato avremmo potuto liberare Moro e muovere un altro attacco”.

Dopo avere letto migliaia di atti e documenti, ascoltato nuovi testimoni, parlato con molti dei protagonisti, recuperato documenti occultati e rilevanti atti tenuti nascosti alla magistratura, sono convinto che il governo del 1978 potesse prevedere che le Brigate rosse mirassero alla cattura di Moro. Le denuncie dello stesso leader DC e dei suoi collaboratori fin dal novembre 1977 vennero trascurate. strage via faniI documenti diffusi dall’organizzazione terrorista vennero letti con superficialità. Le informazioni di cui il Viminale era in possesso poco prima del 16 marzo si sottovalutarono.
Le avvisaglie che si verificarono in via Savoia, dove era lo studio dello statista democristiano, sarebbero dovuto essere più che sufficienti per garantirgli la migliore delle protezioni. Moro invece, rimase privo persino di un’auto blindata. A nulla, rilette oggi, valgono le giustificazioni dell’allora presidente del consiglio Andreotti sulla mancata richiesta da parte dello stesso Moro. Lo stesso non ha mai spiegato perché fosse stata data una protezione ai familiari del presidente democristiano, il quale temeva in modo particolare per il nipotino. Se Moro temeva una qualsiasi forma di attacco per il suo adorato Luca, a maggior ragione avrebbe dovuto temere un’aggressione a se stesso. […] Il problema della mancata protezione di Moro è una questione centrale. E ha un riscontro formidabile nella lettera che il presidente indirizza a Zaccagnini il 31 marzo 1978:

“E infine è doveroso aggiungere, in questo momento supremo, che se la scorta non fosse stata, per ragioni amministrative, del tutto al di sotto delle esigenze della situazione, io forse non sarei qui”.

[…]

E che dire dei segnali che erano giunti al Viminale anche dall’estero? Oggi sappiamo che il Viminale sapeva. Sappiamo che il ministero dell’Interno era in possesso di una notizia molto precisa: le Br erano intenzionate a rapire un importante uomo politico. L’informativa scritta, firmata da Santillo, il funzionario più importante dell’antiterrorismo italiano, era stata inviata al capo della polizia Angelo Vicari. Che effetto provocò quella notizia che avrebbe dovuto, quantomeno, fare scattare un allarme? Un solo effetto: Santillo fu trasferito ad altro incarico e quella preziosa informazione morì nel nulla. E chi poteva essere l’importante uomo politico se non Moro, in quel momento artefice del più rilevante progetto politico dell’era repubblicana: l’avvio del dialogo tra cattolici e comunisti?

[…]

Per anni si è scritto che l’inerzia totale dello Stato andava attribuita a disorganizzazione, negligenza e impreparazione degli apparati di sicurezza italiani. Niente di più falso.
La certezza oggi è atroce, in quei giorni ha prevalso una premeditata volontà di abbandono di Moro al suo destino. Solo una leale collaborazione tra i vari corpi dello Stato avrebbe potuto concedere a Moro più di una chance di salvezza. E invece magistratura e polizia giudiziaria furono emarginate. Fu il Viminale a intervenire. Il primo obiettivo del ministro dell’Interno, infatti, fu di mettere sotto controllo la magistratura romana. […] L’obiettivo venne raggiunto in due tempi: prima con la sottrazione delle indagini a polizia e carabinieri e il passaggio dell’investigazione nelle sole mani dell’Ugicos. E poi con la creazione del diritto di accesso dello stesso ministro a tutti gli atti della magistratura della capitale, mediante un decreto approvato in fretta e furia dal consiglio dei ministri il 21 marzo 1978. Il ministro dell’Interno poteva così conoscere, in ogni dettaglio, le mosse dei magistrati e controllarne le iniziative.
A quale scopo?
Il pretesto fu che le indagini potevano mettere in pericolo la vita di Moro. In realtà era vero il contrario: quelle iniziative avrebbero potuto salvare la vita di Moro.
[…] C’è poi il dato gravissimo quanto oggettivo della presenza della P2 su tutta la scena del sequestro Moro.
E’ inquietante che chi doveva vegliare sulla sicurezza di una nazione – servizi segreti, polizia, carabinieri, guardia di finanza – obbedisse a una struttura segreta parallela allo Stato che provava odio per Moro. E’ sconvolgente che quelle stesse figure fossero il cuore e il motore di un organismo che, di fatto, decise la strategia politico-militare, ma anche investigativa e giudiziaria, da tenere nei cinquantacinque giorni della prigionia Moro.Aldo_Moro_br
Per capire il perché di certe scelte, occorre tener presente che Gelli controllava di fatto entrambi i servizi segreti e godeva della fiducia del ministro Cossiga.
La maggioranza degli italiani crede che Moro sia stato sacrificato alla ragion di Stato, a quella linea della fermezza dovuta all’esigenza di impedire che l’Italia cadesse nelle mani del terrorismo. Per molti anni, ingenuamente, anch’io ho creduto a questa motivazione. Per molti anni ho creduto ciecamente alle teorie della negligenza, dell’incapacità professionale, della disorganizzazione, della distrazione e della inadeguatezza degli inquirenti. Ma mi sbagliavo >>.

F. IMPOSIMATO – S. PROVVISIONATO, “Doveva morire. Chi ha ucciso Aldo Moro. Il giudice dell’inchiesta racconta”, Chiarelettere, Milano 2008, pp. 296-300, 302, 303, 313, 327-332.

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"Quando non si conosce la verità di una cosa, è bene che vi sia un errore comune che fissi la mente degli uomini. La malattia principale dell'uomo è la malattia inquieta delle cose che non può conoscere; e per lui è minor male essere nell'errore che in quella curiosità inutile".

2 Commenti

  1. Mirco Zurlo

    Il rispetto per un morto non va confuso con «il giudizio storico e giudiziario». Su cui, tra l’altro, le «carte parlano chiaro»….
    http://www.lettera43.it/cronaca/caselli-la-prescrizione-salvo-andreotti_4367594060.htm

  2. Mirco Zurlo

    “…un ruolo centrale nel drammatico sviluppo di quei giorni se l’era ritagliato lo stesso Pieczenik, psicologo, in un libro confessione (edito in Italia da Cooper nel 2008 e passato sotto silenzio dal titolo «Abbiamo ucciso Aldo Moro. Dopo 30 anni un protagonista esce dall’ombra»). Nel libro Pieczenik raccontava: «Ho messo in atto una manipolazione strategica che ha portato alla morte di Aldo Moro». Il superconsulente racconta come, all’epoca, sarebbe riuscito a portare i comitati dell’unità di crisi dalla sua parte sostenendo di essere l’unico ad avere a cuore la sorte di Aldo Moro visto che era l’unico a non conoscerlo personalmente. In realtà, rivelava qualche anno fa, l’obiettivo era eliminare Moro: lo si voleva uccidere, ma a farne le spese sarebbero state le Br. Sempre secondo Pieczenik l’operazione sarebbe stata condotta facendo crescere la tensione in modo spasmodico, così da mettere le Br con le spalle al muro e non lasciare loro alcuna via d’uscita se non uccidendo Moro.

    «Mi aspettavo che si rendessero conto del loro errore e che lo liberassero facendo fallire il mio piano – racconta ancora Pieczenik – Fino alla fine ho avuto paura che lo liberassero. Per loro sarebbe stata una grande vittoria».
    […]
    Il misterioso colonnello Guglielmi
    Figura centrale nell’inchiesta, il colonnello Camillo Guglielmi, in servizio all’ufficio “R” della VII divisione del Sismi nonché istruttore abba base Gladio di Capo Marrangiu dove gli agenti venivano addestrati anche alla strategia della tensione. Il pg Ciampoli ha riferito che nei suoi confronti si potrebbe ipotizzare un’accusa per concorso nel rapimento di Aldo Moro e nell’omicidio degli uomini della scorta, ma è impossibile procedere perché il colonnello è nel frattempo morto.
    L’unica cosa certa, però, è che quella mattina intorno alle 9 il colonnello si trovava in via Fani senza un motivo ragionevole. Alla Corte d’assise ha riferito che era lì per caso, perché doveva andare a pranzo con un collega che viveva nelle vicinanze. Una versione ritenuta «risibile» dal pg Ciampoli, nonché smentita dallo stesso collega. Il suo ruolo nel rapimento, dunque, rimane per ora un mistero”.

    http://www.lastampa.it/2014/11/12/italia/cronache/il-consulente-di-cossiga-deve-essere-processato-per-concorso-nellomicidio-di-aldo-moro-0YBwfS9MzSoTYrSKZ1GmQI/pagina.html

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