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LIB(e)RO PENSIERO n.20 – Il Castello

“Prima non capivo perché la mia domanda non ottenesse risposta, oggi non capisco come potessi credere di poter domandare. Ma io non credevo affatto, domandavo soltanto”.

 il castello

“ Era sera tarda quando K. arrivò. Il paese era sprofondato nella neve. Il colle non si vedeva, nebbia e tenebre lo circondavano, non il più debole chiarore rivelava il grande castello. K. sostò a lungo sul ponte di legno che dalla strada maestra conduceva al paese e guardò su nel vuoto apparente. Poi andò a cercare un alloggio per la notte; alla locanda erano ancora svegli, l’oste non aveva stanze libere ma, assai stupito e sconcertato da quel cliente tardivo, offrì di farlo dormire nella sala su un pagliericcio. K. fu d’accordo. Alcuni contadini sedevano ancora davanti alla loro birra, ma egli non volle parlare con nessuno, andò a prendersi da solo il pagliericcio in solaio e si coricò vicino alla stufa. Faceva caldo, i contadini erano silenziosi, egli li osservò ancora un poco con gli occhi stanchi, poi si addormentò. Ma non passò molto che fu svegliato. Un giovane in abito cittadino con un viso da attore, occhi sottili, sopracciglia folte, stava accanto a lui insieme all’oste. I contadini erano ancora lì, alcuni avevano girato la sedia per vedere e udire meglio. Il giovane si scusò molto gentilmente di aver svegliato K., si presentò come figlio del custode del castello, poi disse: «Questo paese appartiene al castello, chi vi abita o pernotta in certo modo abita e pernotta nel castello. Nessuno può farlo senza il permesso del conte. Ma lei questo permesso non ce l’ha, o almeno non l’ha esibito».

K., che si era levato a sedere, si ravviò i capelli, guardò i due dal basso in alto e disse: «In che paese mi sono perso? C’è un castello qui?».

«Certo», disse lentamente il giovane, mentre qualcuno, qua e là, scuoteva la testa all’indirizzo di K., «il castello del conte Westwest».

«E ci vuole il permesso per passare qui la notte?», chiese K. come per convincersi di non aver magari sognato quello che gli era appena stato detto.

«Ci vuole il permesso», fu la risposta, e c’era molta presa in giro nei confronti di K. nel modo in cui il giovane tendendo il braccio chiese all’oste e ai clienti: «O forse non ci vuole il permesso?».

«Quand’è così dovrò procurarmelo», disse K. sbadigliando, e scostò la coperta come per alzarsi.

«Già, ma da chi?», chiese il giovane.

«Dal signor conte», disse K., «non resta altro da fare».

«Adesso, a mezzanotte, andare dal conte a chiedere il permesso?», esclamò il giovane facendo un passo indietro.

«Non si può?», chiese K. con calma. «Allora perché mi ha svegliato?».

Questa volta però il giovane perse il controllo. «Che modi da vagabondo!», esclamò. «Esigo rispetto per le autorità comitali! L’ho svegliata per comunicarle che deve lasciare immediatamente il territorio del conte».

«Finiamola con questa commedia», disse K. con voce stranamente bassa, si coricò e si tirò addosso la coperta. «Lei sta un po’ esagerando, giovanotto, e domani riparleremo del suo comportamento. L’oste e quei signori sono testimoni, se di testimoni ho bisogno. Ma sappia intanto che sono l’agrimensore fatto venire dal signor conte… ».

[…]

K. tese l’orecchio. Dunque il castello lo aveva nominato agrimensore. Da una parte questo era un male per lui, perché dimostrava che al castello sapevano di lui tutto il necessario, che avevano soppesato il rapporto di forze e che accettavano la lotta sorridendo. Ma dall’altra era anche un bene perché a suo avviso provava che lo sottovalutavano e che egli avrebbe avuto più libertà di quanto gli fosse stato lecito sperare a tutta prima. E se con questo riconoscimento della sua qualifica di agrimensore – che certo li poneva moralmente al di sopra di lui – credevano di poterlo mantenere in uno stato di continuo timore, si sbagliavano; un lieve brivido lo percorse, ma fu tutto.

[…]

…uscì nella bella mattinata invernale.

Ora vedeva, là in alto, il castello ben stagliato nell’aria limpida e messo ancor più in risalto dalla neve che, depositata in strato sottile, ne delineava le forme. Sembrava d’altronde che sul colle ci fosse molta meno neve che lì in paese, dove K. avanzava non meno faticosamente del giorno prima, sulla strada maestra. Qui la neve arrivava alle finestre delle casupole e poco sopra gravava sui bassi tetti, ma lassù sul colle tutto s’innalzava libero e leggero, o almeno questa era l’impressione che se ne aveva dal paese.

Nell’insieme il castello corrispondeva, visto da lontano, alle aspettative di K. Non era né una vecchia fortezza né una residenza sontuosa d’epoca recente, ma una vasta costruzione composta da pochi edifici a due piani e da molti, invece, bassi e serrati l’uno all’altro; se non si fosse saputo che era un castello, lo si sarebbe potuto prendere per un borgo. K. vide solo una torre, ma non si distingueva se appartenesse a una casa o a una chiesa. Stormi di corvi le volavano attorno.

escherK. proseguì il cammino con gli occhi rivolti al castello, senza badare ad altro. Ma avvicinandosi rimase deluso, il castello non era che un misero paese, un insieme di casupole senza nessuna caratteristica tranne quella, forse, di essere tutte costruite in pietra; ma l’intonaco si era staccato da un pezzo e la pietra pareva sgretolarsi. K. ebbe un ricordo fuggevole del suo paese natale; non aveva molto da invidiare a quel cosiddetto castello. Se K. fosse venuto fin lì solo per vederlo, il lungo viaggio sarebbe stato fatica sprecata e avrebbe fatto meglio a tornare ancora una volta al suo vecchio paese che da tanto tempo non aveva più rivisto.

E mentalmente ne confrontò il campanile con quella torre lassù. Il campanile si ergeva senza esitazioni, rastremato in alto, fino a un largo tetto coperto di tegole rosse, un edificio terreno, certo – che altro potremmo edificare noi? – ma con una meta più elevata rispetto all’amalgama di case basse e con un’espressione più luminosa di quella dell’opaca giornata di lavoro. Questa torre – era l’unica che si vedesse -, chiaramente la torre di un’abitazione, forse del corpo principale del castello, era una costruzione tonda e uniforme, in parte pietosamente ricoperta dall’edera, con piccole finestre che ora luccicavano al sole – tutto questo aveva un che di folle – e terminava in una specie di terrazza, i cui merli, incerti, irregolari, diroccati, come disegnati da mano infantile timorosa o trasandata, si stagliavano contro il cielo azzurro. Era come se un tetro abitante costretto per giuste ragioni a restarsene chiuso nella stanza più remota della casa, avesse sfondato il tetto e fosse sorto per mostrarsi al mondo.
K. si arrestò di nuovo, come se stando fermo potesse giudicare meglio. Ma fu disturbato. Dietro la chiesa del paese presso la quale si era fermato – in realtà non era che una cappella, ampliata a forma di granaio per poter accogliere i fedeli – c’era la scuola. Era un edificio basso e lungo, che univa curiosamente il carattere del provvisorio e del molto vecchio, situato in fondo a un giardino cinto da una cancellata, che adesso era solo un campo di neve. I bambini uscivano in quel momento con il maestro. Lo attorniavano in gruppo compatto, tutti gli occhi erano puntati su di lui, le loro chiacchiere s’incrociavano senza posa, parlavano così in fretta che K. non capiva nulla. Il maestro, un giovane di bassa statura, stretto di spalle, con un portamento eretto, ma non tanto da essere ridicolo, aveva adocchiato K. già da lontano; del resto, a parte il suo gruppo, K. era l’unica persona in vista. Come forestiero K. salutò per primo, tanto più che quell’ometto aveva un piglio molto autoritario. «Buon giorno, signor maestro», disse. Di colpo i bambini ammutolirono, quell’improvviso silenzio che introduceva le sue parole dovette certo piacere al maestro.

«State visitando il castello?», chiese con più dolcezza di quanto K. si aspettasse, ma con un tono che suonava di disapprovazione.

«Sì», disse K., «vengo da fuori, sono arrivato soltanto ieri sera».

«Non vi piace il castello?», chiese in fretta il maestro.

«Come?», chiese di rimando K. piuttosto sconcertato, e ripeté la domanda in forma più blanda: «Se mi piace il castello? Che cosa vi fa pensare che non mi piaccia?».

«Non piace a nessun forestiero», disse il maestro.

Per non dire nulla che potesse riuscire sgradito, K. cambiò discorso e chiese: «Lei conosce di certo il conte?».

«No», disse il maestro e fece per andarsene. Ma K. non si arrese e tornò a chiedere: «Come? Non conosce il conte?».

«Come vuole che lo conosca?», disse piano il maestro e a voce alta aggiunse in francese: «Badi a come parla in presenza di bambini innocenti».

A quel punto K. si sentì autorizzato a chiedere: «Potrei venirla a trovare, signor maestro? Mi tratterrò qui per un certo tempo e già mi sento un po’ solo; il mio posto non è fra i contadini e certo nemmeno al castello».

«Tra i contadini e il castello non fa grande differenza», disse il maestro.

«Può darsi», disse K., «ma questo non cambia la mia situazione. Potrei venirla a trovare?».

«Io sto nella casa del macellaio, in via del Cigno». Era più un’informazione che un invito, tuttavia K. disse: «Bene, verrò». Il maestro fece un cenno con il capo e si avviò con il gruppo di bambini che ripresero subito a gridare. Sparirono presto in un vicolo che scendeva bruscamente.

Ma K. era distratto, il colloquio lo aveva irritato. Per la prima volta dal suo arrivo provava una vera stanchezza. All’inizio la lunga strada percorsa pareva non averlo per nulla affaticato; come aveva camminato tranquillo, per giorni, un passo dopo l’altro! Ma ora si facevano notare le conseguenze di quello sforzo eccessivo, proprio nel momento meno opportuno. Si sentiva irresistibilmente spinto a fare nuove conoscenze, ma ogni nuova conoscenza accresceva la sua stanchezza. Se ora, in quello stato, si costringeva a prolungare la passeggiata almeno fino all’ingresso del castello, avrebbe già fatto fin troppo.

il castello kafkaQuindi riprese il cammino, ma era un lungo cammino. La strada, infatti, quella principale del paese, non portava al colle del castello ma solo nelle vicinanze; poi pareva svoltare intenzionalmente, e se non si allontanava dal castello neppure gli si avvicinava. K. aspettava sempre che la strada si decidesse a piegare verso il castello e solo con questa speranza andava avanti; evidentemente esitava per stanchezza ad abbandonare la strada, e si stupiva di quanto fosse lungo quel paese che non finiva mai, sempre quelle piccole case, finestre coperte di ghiaccio, neve e non un’anima viva.

[…]

In quell’istante nella casa sulla sinistra si aprì una minuscola finestra; chiusa, pareva di un azzurro intenso, forse nel riflesso della neve, ed era così piccola che, una volta aperta, non lasciò vedere per intero il viso di chi guardava fuori, ma solo gli occhi, occhi scuri, e vecchi. K. udì una voce tremante di donna: «È lì fuori». «È l’agrimensore», disse una voce maschile. Poi l’uomo venne alla finestra e chiese senza ostilità, ma come preoccupato che nella strada davanti a casa sua tutto fosse in ordine: «Chi aspettate?».

«Una slitta che mi dia un passaggio», disse K.

«Qui non passano slitte», disse l’uomo, «non passa mai nulla».

«Ma è la strada che porta al castello», obiettò K.

«Non importa, non importa», disse l’uomo con una certa durezza, «qui non passa nulla». Poi tacquero entrambi. Ma l’uomo evidentemente stava riflettendo su qualcosa, poiché teneva ancora aperta la finestra, da cui usciva del fumo.

«Brutta strada», disse K. per venirgli in aiuto.

Ma l’uomo si limitò a dire: «Eh, sì». Dopo un momento, però, disse: «Se volete vi porto io con la mia slitta».

«Oh sì, vi prego», disse K. tutto contento, «quanto volete?».

«Niente», disse l’uomo. K. ne fu molto sorpreso.Kafka_Das_Schloss_1926

«Voi siete l’agrimensore», spiegò l’uomo, «e fate parte del castello. Dove volete andare?».

«Al castello», disse svelto K.

«Allora non vi porto», disse subito l’uomo.

«Ma se faccio parte del castello», disse K. ripetendo le sue stesse parole.

«Può darsi», disse l’uomo evasivo.

«Allora portatemi alla locanda», disse K.

«Va bene», disse l’uomo, «vengo subito con la slitta». Tutto questo non dava l’impressione di una particolare gentilezza ma piuttosto di un desiderio molto egoistico, ansioso, quasi pedantesco di far sloggiare K. da quel posto davanti alla casa…”.

Franz Kafka, “Il castello” (1926).

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"Quando non si conosce la verità di una cosa, è bene che vi sia un errore comune che fissi la mente degli uomini. La malattia principale dell'uomo è la malattia inquieta delle cose che non può conoscere; e per lui è minor male essere nell'errore che in quella curiosità inutile".

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