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LIB(e)RO PENSIERO n.2 – La sconfitta del tempo

Ci sono eventi, situazioni, fatti che ci lasciano a pensare, portando la nostra mente nei territori dove le idee si fondono e confondono. Non c’è persona che in età diverse della propria vita non si sia posta domande sul senso dell’esistere, sul cosa avvenga dopo la morte, sulla limitatezza del suo tempo. A tali interrogativi la risposta unica non c’è, ce ne sono molte possibili. Spesso cerchiamo attraverso l’escamotage delle religioni, portatrici di “Verità Assolute”, la costruzione di quelle certezze che la vita di per sé non rivela, o ancora peggio, proviamo a convincerci di non aver bisogno di queste domande con un atteggiamento difensivo di negazione del problema. Ma la psichiatria insegna che l’irrisolto ritorna.

E’ inutile negarlo o far finta di ignorarlo: i problemi della psichiatria ci riguardano. E’ nelle deformazioni grossolane, e perciò ben visibili, delle patologie gravi che possiamo cogliere ciò che si agita anche dentro di noi, magari in forme più sottili e meno appariscenti, ma sempre capaci di condizionare i nostri comportamenti, le nostre reazioni, le nostre emozioni. La psicopatologia ci accomuna quando ci accorgiamo che la paura della morte, del trascorrere del tempo e della finitezza della vita sono anche le nostre angosce.

I sentimenti connessi alla propria condizione esistenzale provocano, in chi poi andrà incontro alla malattia psichica, una fuga verso un modo di vivere il tempo diverso, un “controtempo” che isola dal mondo e da se stessi e che conduce verso sintomi e comportamenti che vanno compresi nel loro significato di alleviamento del dolore psichico e nel tentivo di guarigione. Il dolore di chi non sente più se stesso, di chi non si riconosce, di chi solo poi cerca di rientrare in sé e tra di noi attraverso i sintomi, va compreso e condotto verso l’accettazione della realtà per quella che è.

La malattia non è un orribile mostro, ma piuttosto un incantesimo imperfetto, una fuga inconsapevole ed incolpevole dalla realtà. Ma anche noi fuggiamo, in modo meno fragile e spaventato. La nostra fuga si riconosce nel rifiuto di stare accanto, di comprendere la follia e di disegnarne una nostra, che chiamiamo “normalità“, in cui viviamo attaccati a inesistenti e strumentali certezze, in un vivere sociale spesso insensato e fatto di guerre personali.

 

<< Mi viene incontro Maria.LIB(e)RO PENSIERO - Rubrica de L'indifferenziato
Non l’avevo mai vista prima: magra, ossuta, capelli scompigliati che le cadono a ciocche qua e la, lasciandole scoperto il cranio a tratti.
Ciò che scopre il cranio sono le cicatrici che hanno impedito la crescita dei capelli. Zigomi pieni di segni che deformano il volto rendendolo un po’ pauroso. Ferite aperte sul volto e sul corpo, sangue che scorre e si raggruma sulla pelle e sul vestito. Sulle gambe altre ferite.
Oscilla, agita le braccia, sbatte contro un muro, cade sulle ginocchia. Emette suoni gutturali, non parole, sembra affermare o chiedere qualcosa.  Non vuol essere toccata, forse vuole stare li, per terra.
Maria è lì da una notte.
Sulla sua cartella clinica non c’è scritto nulla se non una diagnosi neurologica che fa pensare ai movimenti inconsulti delle braccia, mioclonie. […]
Adesso è a letto. Il cuscino sporco di sangue. Per un attimo è ferma, mi guarda, ha gli occhi marroni, chiari e luminosi. Poi riprende a scuotersi, si piega, le ginocchia sul petto, si distende quasi di scatto rotola e cade dal letto prima che possa fermarla. Dall’altra parte del letto mi aspetta così come è caduta. Le sanguina la testa e mi guarda, dice qualcosa con un suono basso prolungato, incomprensibile. Ma non è un lamento. […]
Due giorni dopo, io e i colleghi, di quella paziente non sapevamo ancora quasi nulla. Avevamo incontrato la madre, recuperato i fogli del Pronto Soccorso, parlato con i medici di due ospedali dove era già stata ricoverata, sentito il racconto delle assistenti sociali che erano andate a casa della paziente diverse volte, anche prima del ricovero in corso. Eppure continuavamo a saperne poco. Tutti ammettevano e si lamentavano di saperne poco di quella donna trentacinquenne single, con una madre che viveva per conto suo, e tutti avevano la ferma convinzione che la miglior cosa per lei fosse un lungo ricovero in un luogo protetto, dove potesse smettere di farsi male.
Quasi nessun medico che l’aveva curata in passato se la ricordava.
Le assistenti sociali descrivevano la casa in cui abitava e le condizioni di vita di quella donna come un inferno. La madre diceva che “era così da quando s’era ammalata, poverina”.
Erano in corso accertamenti di laboratorio superspecialistici di tipo neurologico. Si cercava un dato ematologico decisivo per una diagnosi, ma di fatto non lo si era trovato. Eppure la diagnosi restava neurologica, anche se tutto era negativo da quel lato. […]
Ci avviavamo a non capire.
La paziente continuava ad agitare le braccia, contorcere il busto, emettere suoni inarticolati, cadere, ferirsi.
Poi un giorno, forse esasperata, si ferì più volte il capo contro la testata del letto gettandosi sopra le coperte a corpo morto. Chino su di lei le sussurai : “perché?”.
Mi rispose in un soffio, ma finalmente comprensibile: “voglio andare a casa”.
Non ti posso mandare a casa se ti fai così male ” risposi.
E lei: “Allora mandami in quell’ospedale, quello dopo l’incidente…”.
Quale incidente? Chiesi ad altri colleghi: non lo sapeva nessuno.
Tornai da lei e le posi l’interrogativo: “Quale incidente?”
Mi rispose che lei non sapeva, ma che dovevo parlare con la madre.
Nelle due ore del primo incontro con la madre, raccontando la vita della figlia e le sue vicissitudini, la madre non aveva trovato il tempo, il modo, o quel diavolo che sia, per dire che la figlia era stata sposata, aveva due bambini, aveva avuto un incidente stradale, i bimbi erano morti, si era separata dal marito qualche anno dopo, e solo dopo due anni aveva cominciato a star male. Incredibile o no, non lo aveva raccontato, né a noi, né mai ai neurologi o medici, ed erano molti che le avevano chiesto della vita e della malattia della figlia.
Maria viveva da sola, in una casa dotata di un balconcino dove d’estate, ma non solo d’estate, dormiva, a volte sotto molte coperte. All’interno non un mobile integro, tutto più o meno distrutto, “gettato” per terra. Per terra vetri, pezzi di vetro di ogni tipo, ma soprattutto di bottiglie d’acqua, fracassate e ridotte a frammenti. Maria normalmente ci camminava sopra. Più volte le assistenti sociali avevano tentato di “bonificare” dal vetro e dalle bottiglie quella casa, ma avevano un avversario in questo tentativo. Malgrado più volte “convinta” la madre a portare alla figlia l’acqua minerale in bottiglie di plastica, il problema non si risolveva perché la madre per dimenticanza, trascuratezza, sottovalutazione, dopo un po’ riprendeva a portarle bottiglie di vetro. E così la figlia continuava a tagliarsi i piedi sui vetri.
Maria non usciva mai di casa.
L’incidente. Molti anni prima la loro macchina si era vista stringere in una curva da un’altra auto, il marito di Maria (uno dei tanti testimoni “dispersi ed irreperibili”) aveva tentato di schivarla ed era finito contro un palo. Uno schianto tremendo: ma come fossero andate le cose più nel dettaglio non lo sapeva nessuno.
Provai a chiedere direttamente a Maria il prosieguo dell’incidente.
Lei mi guarda come se dovesse attendere, ricordare, poi a voce bassissima dice: “Sono uscita, per chiedere aiuto, c’erano tutti vetri, sangue addosso, lui era addosso al volante”.
E i bambini…? ”, parole dette anche da me in un soffio.
Risposta: “Non ho mai visto, non so…, non mi sono voltata…, erano dietro, i bambini, io, sono scappata via, per…” dopo ci volle tutta la mia forza per impedirle di buttarsi dal letto, di strapparsi ciocche di capelli, di graffiarsi.
Quel pomeriggio si ferì più volte, cadde più del solito. […]
 
Maria voleva tornare a casa, dove avrebbe continuato a tagliarsi, farsi del male, rivivere l’incidente, il sangue, il dolore, tornare e “rimanere in quel momento”.
L’alternativa che mi dava era il trasferimento nell’ospedale dov’era stata ricoverata immediatamente dopo, ancora quindi quel luogo, con lo stesso recente dolore, sangue, ferite, lo stesso tragico momento nel quale una madre perde due figli, fuggendo dall’auto, dopo un’occhiata al marito, senza prima nemmeno guardarli, vedere se sono vivi. Ripensarci è comunque insopportabile, ripensarci è forse ancora più insopportabile proprio per come si è comportata.
E così, facendosi dimenticare da tutti, arresta il suo tempo: ogni ferita è una conferma che non ancora tutto è successo, finito, i bimbi sono ancora vivi. Uno dei due morirà in effetti dopo qualche ora dall’incidente, in rianimazione.
I bambini sono ancora vivi, ma apertamente non lo può dire, Maria non è pazza, se non di dolore e di colpa.
Eppure la sconfitta del fluire del tempo, il suo arresto, la sconfitta del senso comune, dell’impossibilità, per Maria avviene. A un prezzo altissimo, ma avviene.
E’ l’arresto del tempo, agito e vissuto in modo così convincente da riuscire sottilmente a coinvolgere tutti, disinformati e senza punti di riferimento. Fuorviati, all’inseguimento di un male diverso da quello che c’è. La fantomatica e rara malattia neurologica, dinnanzi all’evidenza di un male peggiore, l’inarrestabile fluire del tempo che condanna i fatti accaduti alle loro conseguenze.
Condannata al fatto di non essersi occupata immediatamente dei figli, non volgendosi a guardare i sedili posteriori della macchina, alla fuga dall’auto verso una istintiva salvezza che non è stata morire con loro, Maria oppone l’estremo sacrificio dell’inesistenza psichica attuale. […]
Maria non è pazza, non delira, non ha allucinazioni, i segni, le cicatrici della sua personale psicosi se li sceglie da sola.
Non è quasi mai così esplicitamente strutturante il “rifiuto” in una malattia psichica, ma sempre dietro i sintomi si celano significative ferite, ancora e pur tuttavia sanguinanti, che si vogliono dimenticare >>.

 

F. La Spina, “L’incantesimo della follia. Eziopatogenesi dei disturbi psichiatrici e patologia della normalità“, Franco Angeli, Milano 2008, pp. 27-31.

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Mirco Zurlo
"Quando non si conosce la verità di una cosa, è bene che vi sia un errore comune che fissi la mente degli uomini. La malattia principale dell'uomo è la malattia inquieta delle cose che non può conoscere; e per lui è minor male essere nell'errore che in quella curiosità inutile".

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