C’è una faccia della grande emigrazione italiana che abbiamo rimosso. Proprio quella che dovremmo conoscere bene per capire, rispettare e amare ancora di più i nostri nonni, padri, madri e sorelle che partirono. Invece abbiamo preferito ricordare solo gli “zii d’America” arricchiti e vincenti e raccontare a noi stessi, in questi anni di confronto con le “orde” di immigrati in Italia e di montante xenofobia, che quando eravamo noi gli immigrati degli altri, eravamo diversi. Eravamo più amati, eravamo migliori. Non è proprio così.
Quando gli “albanesi” eravano noi, espatriavamo illegalmente in migliaia, ci linciavano come ladri di posti di lavoro, ci accusavano di essere tutti mafiosi e criminali.
Quando gli “albanesi” eravamo noi, vendevamo i nostri bambini agli orchi girovaghi, gestivamo la tratta delle bianche, seminavamo il terrore anarchico ammazzando ricchi potenti e poveri passanti ed eravamo così sporchi che ci era interdetta la sala d’aspetto di terza classe.
“Quando gli albanesi eravano noi“, è un libro che andrebbe letto nelle scuole e nelle piazze, a giovani che non sanno e a meno giovani che hanno voluto dimenticare, perchè quando gli “albanesi” eravano noi, era solo ieri.
<< La feccia del pianeta, questo eravamo. Meglio: così eravamo visti. Non eravamo considerati di razza bianca nei tribunali dell’Alabama. Ci era vietato l’accesso alle sale d’aspetto di terza classe alla stazione di Basilea. Venivamo martellati da campagne di stampa indecenti che ci dipingevano come “una maledetta razza di assassini”. Cercavamo casa schiacciati dalla fama di essere “sporchi come maiali”. Dovevamo tenere nascosto i bambini come Anna Frank in una Svizzera dove ci era proibito di portarceli dietro. Eravamo emarginati dai preti dei paesi d’adozione come cattolici primitivi e un pò pagani. Finivamo appesi nei pubblici linciaggi con l’accusa di fare i crumiri o semplicemente di essere tutti siciliani. “Bel paese, brutta gente”. Ce lo siamo tirati dietro per un pezzo, questo modo di dire diffuso in tutta l’Europa e scelto dallo scrittore Claus Gatterer come titolo di un romanzo in cui racconta la diffidenza e l’ostilità dei sudtirolesi verso gli italiani. Oggi raccontiamo a noi stessi, con patriottica ipocrisia che eravamo “poveri ma belli”, che i nostri nonni erano molto diversi dai curdi o dai cingalesi che sbarcano sulle nostre coste, che ci insediavamo senza creare problemi, che nei paesi di immagrazione eravamo ben accolti o ci guadagnavamo comunque subito la stima, il rispetto, l’affetto delle popolazioni locali. Ma non è così. […] E’ vero, non c’è paese che non si sia arricchito, economicamente e culturalmente, con l’apporto degli italiani. In 27 milioni se ne andarono, nel secolo del grande esodo dal 1876 al 1976. E tantissimi fecero davvero fortuna. Come Amedeo Obici, che partì da Le Havre a undici anni e sgobbando come un matto diventò il re delle noccioline americane: “Mister Peanuts”. O Giovanni Giol, che dopo aver fatto un sacco di soldi col vino in Argentina rientrò e comprò chilometri di buona terra nel Veneto dando all’immensa azienda agricola il nome di “Mendoza”. O Geremia Lunardelli che […] arrivò in Brasile senza una lira e finì per affermarsi in pochi anni come il re del caffè carioca, quindi mondiale. Quelli si li ricordiamo, noi italiani. Quelli che ci hanno dato lustro, che ci hanno inorgoglito, che grazie alla serenità guadagnata col raggiungimento del benessere non ci hanno fatto pesare l’ottuso e indecente silenzio dal quale sono sempre stati accompagnati. Gli altri no. Quelli che non ce l’hanno fatta e sopravvivono oggi tra mille difficoltà nelle periferie di San Paolo, Buenos Aires, New York o Melbourne fatichiamo a ricordarli. Abbiamo perduto 27 milioni di padri e di fratelli eppure quasi non ne trovi traccia nei libri di scuola. Erano partiti, fine. Erano la testimonianza di una storica sconfitta, fine. Erano una piaga da nascondere, fine. Soprattutto nell’Italia della retorica risorgimentale, savoiarda e fascista. Un esempio per tutti, il titolo del 27 ottobre 1927 del Corriere della Sera sull’affondamento a 90 miglia da Rio de Janeiro di quella che era stata la nave ammiraglia della nostra flotta mercantile, colata a picco col suo carico di poveretti diretti in Sud America. Tre colonne (su nove!) di spalla: “Il Principessa Mafalda naufragato al largo del Brasile. Sette navi accorse all’appello – 1200 salvati – poche decine le vittime”. Erano 314, i morti. Ma il numero finì tre giorni dopo in un titolino in neretto corpo 7. A una colonna. E il commento del giornale, che invece di pubblicare il nome delle vittime riportava quello rassicurante dei sopravvissuti (!) tra i quali c’era il futuro papà del pandoro Ruggero Bauli, era tutto intonato al maschio eroismo del comandante Simone Gulì, inabissatosi con la sua nave. Se ne fotteva l’Italia di quei suoi figli di terza classe. Basta estrarre dai cassetti i rapporti consolari, che avevano come unica preoccupazione la brutta figura che ci facevano fare i nostri nonni, i nostri padri, le nostre sorelle perchè mendicavano o erano sporchi o facevano chiasso o andavano alla deriva verso i lupanari e la delinquenza. […] Di tutta la storia della nostra emigrazione abbiamo tenuto solo qualche pezzo. La straordinaria dimostrazione di forza, di bravura e di resistenza dei nostri contadini in Brasile o in Argentina. Le lacrime per i minatori mandati in Belgio in cambio di 200 chili l’uno di carbone al giorno e morti in tragedie come quella di Marcinelle, dove i nostri poveretti vivevano nelle baracche di quello che era stato un lager nazista. I successi di manager alla Lee Jacocca, di politici alla Mario Cuomo, di attori come Rodolfo Valentino, Robert de Niro, Ann Bancroft (all’anagrafe Anna Maria Italiano), Leonardo Di Caprio. La stima conquistata alla Volkswagen dai capireparto siciliani o calabresi. E su questi pezzi di storia abbiamo costruito l’idea che noi eravamo diversi. Di più: eravamo migliori. Non è così. Non c’è stereotipo rinfacciato agli immigrati di oggi che non sia già stato rinfacciato, un secolo o solo pochi anni fa, a noi. “Loro” sono clandestini? Lo siamo stati anche noi: a milioni, tanto che i consolati ci raccomandavano di pattugliare meglio i valichi alpini e le coste non per gli arrivi ma per le partenze. “Loro” si accalcano in osceni tuguri in condizioni igieniche rivoltanti? L’abbiamo fatto anche noi, al punto che a New York il prete irlandese Bernard Lynch teorizzava che “gli italiani riescono a stare in uno spazio minore di qualsiasi altro popolo, eccetto forse i cinesi”. “Loro” vendono le donne? Ce le siamo vendute anche noi, perfino ai bordelli di Porto Said o del Maghreb. Sfruttano i bambini? Noi abbiamo trafficato per decenni coi nostri, cedendoli agli sfruttatori più infami o mettendoli all’asta nei mercati d’oltralpe. Rubano il lavoro ai nostri disoccupati? Noi siamo stati massacrati con l’accusa di rubare il lavoro agli altri. Importano criminalità? Noi ne abbiamo esportata dappertutto. Fanno troppi figli rispetto alla media italiana? […] i nostri immigrati facevano in media 8,25 figli a coppia. […] Perfino l’accusa più nuova dopo l’11 settembre, cioè che tra gli immigrati ci sono “un sacco di terroristi”, è per noi vecchissima: a seminare il terrore nel mondo per un paio di decenni, furono i nostri anarchici. Come Mario Buda, un fanatico romagnolo che si faceva chiamare Mike Boda e che il 16 settembre 1920 fece saltare per aria Wall Street fermando il respiro di New York ottant’anni prima di Osama Bin Laden. Mancava poco a mezzogiorno, la strada davanti allo Stock Exchange, la borsa newyorkese, era piena di gente. Si arrestò un carretto tirato da un cavallo. L’uomo legò le redini a un palo davanti alla banca Morgan & Stanley che nel 2001 sarebbe stata nuovamente colpita dall’attacco alle Torri Gemelle, si sistemò il cappello e s’allontanò senza mostrare fretta. Pochi minuti e Wall Street fu squassata da un’esplosione spaventosa. […] Furono contati 33 morti, oltre 200 feriti e danni per due milioni di dollari dell’epoca. Il più sanguinoso attentato di tutti i tempi, e lo sarebbe rimasto fino alla strage di Oklahoma City, nella storia degli Stati Uniti. […] E in questa doppia versione dei fatti può essere riassunta tutta la storia dell’emigrazione italiana. Una storia carica di verità e di bugie. In cui non sempre puoi dire chi avesse ragione e chi torto. Eravamo sporchi? Certo, ma furono infami molti ritratti dipinti su di noi. Era vergognoso accusarci di essere tutti mafiosi? Certo, ma non possiamo negare d’avere importato noi negli States la mafia e la camorra. La verità è fatta di più facce. Sfumature. Ambiguità. E se andiamo a ricostruire l’altra metà della nostra storia, si vedrà che l’unica vera e sostanziale differenza tra “noi” allora e gli immigrati in Europa oggi, fatta eccezione per l’esportazione della violenza religiosa, un fenomeno che riguarda una minoranza del mondo islamico ma non ha mai toccato gli italiani (a parte il contributo al terrorismo irlandese e cattolico dell’Ira da parte di Angelo Fusco e altri figli di immigrati a Belfast e dintorni), è quasi sempre lo stacco temporale. Noi abbiamo vissuto l’esperienza prima, loro dopo. Punto. Detto questo, per carità: alla larga dal buonismo, dall’apertura totale delle frontiere, dall’esaltazione scriteriata del melting pot, dal rispetto politicamente corretto ma a volte suicida di tutte le culture. Ma alla larga più ancora dal razzismo. Dal fetore insopportabile di xenofobia che monta, monta, monta in una società che ha rimosso una parte del suo passato…>>.Gian Antonio Stella, L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi, Bur, Milano 2007, pp. 7-14, 264-283.
Hanno scritto di noi:
– New York Times
“Mafiosi, socialisti o nazionalisti, si tratta sempre di criminali”.
“Diventano assassini dopo due bicchieri”.
“Pigri, venali e camorristi con una naturale tendenza alla criminalità”.
“Madri maledette che vendono i loro figlioletti”.
“Mendicanti per professione e per piacere”.
“Felici di sguazzare nella spazzatura”.
“Mostri malati che camminano come cani”.
“Credono che bagno sia una brutta parola”.
“Siciliani spinoni, vigliacchi e sgozzatori”.
– New Herald
“I peggiori rifiuti d’Europa”.
“Gli immigrati italiani: una classe pericolosa”.
– Final Report
“Corruttori di giudici e politici”.
– Century Magazine
“Convinti che tutto sia loro dovuto”.
“Possono uccidere il loro miglior amico”.
– Cri du Peuple
“Vivono in una promiscuità ripugnante”.
– The Dangerous Classes of New York
“La popolazione più sporca mai incontrata”.
– Leslie’s Illustrated
“Maccheroni, mandolini e dolce far niente”.
– Reports of the Immigration Commission, Usa 1911
“Ritardati mentali che abbassano lo standard americano”.
Frasi molto diffuse:
“Usano lo stesso coltello per tagliare il pane e la gola”.
“Rubano il lavoro ai protestanti”.
“Parassiti che vogliono cacciare gli australiani”