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LIB(e)RO PENSIERO n. 27 – La trasformazione mediatica dei fenomeni mafiosi

«Fra il 1991 e il 1992 il panorama informativo della televisione italiana si allargò quantitativamente. Il gruppo Fininvest iniziò a trasmettere regolarmente i notiziari Studio Aperto, Tg4 e Tg5. L’esperienza sempre più pornografica della morte e della tragedia che la cronaca offriva aveva più canali visivi attraverso cui viaggiare. Gianfranco Marrone, nel 1993, scrisse:

media e mafia“Uno degli effetti […] delle stragi mafiose […] è stata la trasformazione profonda dell’universo dei media: nei giornali e in televisione la presa di coscienza collettiva del fenomeno mafioso, e della sua prorompente gravità, ha comportato una sorta di rivoluzione, non solo nei temi, ma nelle forme stesse del comunicare. Sfruttando l’effetto di tragedia – o, che è lo stesso, alimentando la coscienza civile e politica della gente – i media hanno scoperto che parlare della mafia fa vendere, ossia che (per mille complesse ragioni) gli attentati ai giudici siciliani costituiscono notizie più appetibili che non le crisi di governo o gli intrallazzi amministrativi. Così giornali e televisioni hanno parlato ossessivamente della mafia nel modo in cui usano parlare pressoché di qualsiasi cosa: costruendone una rappresentazione opportunamente deviata. Hanno amplificato euforie e disforie, hanno caricaturizzato i comportamenti, hanno stilizzato i caratteri, hanno riempito di dettagli inessenziali storie e situazioni: hanno, in poche parole, trasformato il tragico in epico, il dolore indicibile in dolore spettacolarizzato.

Capaci, Via D’Amelio e le bombe del ’93 furono così pezzi di un mosaico informativo e comunicativo in un panorama politico in cui i rivolgimenti nazionali e internazionali sembrano fatti apposta per costruire passioni e spettacolo.

[…]

L’altro elemento che scaturisce  dai tragici eventi di quegli anni è l’emergere in positivo della figura del magistrato, del poliziotto-carabiniere, del funzionario pubblico incorruttibile, dell’onesto cittadino, tutti espressione di un fedele servizio allo Stato e alla società, che si sono rivelati per loro trappole mortali. Le morti di Falcone e Borsellino – senza dimenticare i giudici Saetta, Livatino e Scopelliti uccisi nello stesso periodo – e le morti degli agenti di scorta in questo senso furono paradigmatiche. E i media fiondarono la loro macchina industriale e narrativa su queste figure, attivando un meccanismo pericoloso di iper-eroizzazione. Falcone disse che la mafia era un “fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni”. Immaginare che la lotta alla mafia la possano portare avanti solo cittadini dotati di coraggio allontana da una probabile vittoria sul fenomeno mafioso. Borsellino denunciava “una delega totale e inammissibile nei confronti della magistratura e delle forze dell’ordine a occuparsi esse sole del problema mafia”. Se è già difficile comprendere appieno un fenomeno polimorfico come la mafia, altrettanto ingenuo è affidare le speranze a figure carismatiche. La lotta è un’azione collettiva di un sistema sociale e i mezzi di comunicazione di massa devono dare il loro contributo. Sono i poteri che possono porsi come alternativi a quelli di proprietà assoluta dello Stato. Hanno il compito di formare l’opinione pubblica, di dare gli strumenti di lettura della realtà, di smascherare le malefatte del potere politico, opporsi alle censure più o meno velate. La lotta alla mafia non si risolve narrando come eroi coloro che sono caduti o che sono ancora in vita e hanno dimostrato particolari doti di analisi e di coraggio. Da loro si deve prendere ispirazione, ma con la consapevolezza che solo partendo da una buona cittadinanza, da una partecipazione più o meno attiva alla vita della propria comunità, dalla lotta per una estensione dei diritti civili e politici, dalla fame di una buona comunicazione, si possono creare le condizioni di una sconfitta del fenomeno mafioso. Certo le narrazioni mediatiche cercheranno sempre l’eroe da celebrare e il mostro da perseguitare, ma, con la consapevolezza di certi meccanismi e con una alfabetizzazione matura e consapevole, ci si potrà muovere a proprio agio in un mondo altrimenti indecifrabile».

Andrea Meccia, MediaMafia. Cosa Nostra fra cinema e TV, Di Girolamo, Trapani 2014, pp. 71, 75-76.

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"Quando non si conosce la verità di una cosa, è bene che vi sia un errore comune che fissi la mente degli uomini. La malattia principale dell'uomo è la malattia inquieta delle cose che non può conoscere; e per lui è minor male essere nell'errore che in quella curiosità inutile".

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