Elizabeth Gilbert (Julia Roberts), brillante femmina newyorchese in carriera, esce malconcia dal divorzio con l’uomo che credeva di amare (si trattava in realtà di un calesse amish). All’improvviso l’equilibrio e l’armonia esistenziale che fino ad allora avevano garantito una solida felicità alla sua vita, si spezzano irreparabilmente: New York non è più la stessa, il lussuoso appartamento in cui vive sembra una stamberga fetida e grigia, il lavoro non è più così stimolante, e l’amore appare solo un lontano e illusorio effetto ottico. Insomma, il passato è una terra straniera ormai, e niente appare più com’era prima. Tranne Marlon Brando, che invece è sempre lui. Trascorre tre anni in preda alla depressione più buia, all’apatia e all’insostenibile pesantezza dell’ essere una moderna donna occidentale sofisticata: provate voi a vivere a Manhattan, ad andare a cena fuori ogni sera, ad assistere a performance di teatro sperimentale e ad avere una storia con un attore difficile e tenebroso conosciuto alla fine di uno dei sopracitati spettacoli off-off broadway. Dev’essere terribile. Anche perchè, dopo un iniziale periodo di serenità, la relazione con il giovane attorucolo prende una piega inaspettata, e la felicità dei primi baci viene brutalmente soffocata dall’insicurezza di lei e dall’intellettualismo di lui.” Che palle!” esclamerebbe Claude Chabrol.
Così, dopo 20 minuti di agghiacciante prevedibilità, la svolta che Elizabeth attendeva da tempo arriva puntuale e perentoria: un viaggio rigenerante in Italia, India e Indonesia, per il più classico degli “ho bisogno di staccare la spina per un po’”. Presa la decisione di lasciarsi alle spalle il suo appartamento a New York, la sua vita agiata e pregna di buon gusto, il suo ex marito (ancora presente nei suoi pensieri) e la modernità fredda e famelica che le stava togliendo energie e voglia di vivere (cosa in cui il film riesce alla grande) la scrittrice in pena giunge a Roma, capitale del belpaese, per la prima tappa del suo Grand Tour terapeutico. Ecco, questo è il momento esatto in cui il film finisce e inizia la docu-fiction sui luoghi comuni. Via quindi alle classiche inquadrature degli scorci più suggestivi della città eterna, tanto belle quanto trite e banali: tramonti e viste panoramiche dal Cuppolone, passeggiate col naso all’insù per i vicoli di Piazza Navona, il Pantheon, statue, mercatini, Campo Dè Fiori, Gregory Peck, Piazza Di Spagna, Villa Borghese, vacanze rumene, anvedi giulia robberts!
Nel frattempo la protagonista stringe amicizia con una giovane donna svedese in un bar affollatissimo in cui impara subito i modi di fare all’italiana: seguendo il consiglio della sodale scandinava, sgomita e urla per ordinare un caffè e un cornetto, perchè si sa, gli italiani sono così, rumorosi e caotici. Ma anche generosi e passionali. Alè! la fiera delle ovvietà si appropria definitivamente della pellicola, la quale, in un crescendo vertiginoso, verrà segnata da un susseguirsi di scene rigurgitanti cliché insopportabili. Come se gli americani avessero un’idea dell’Italia, e in particolare di Roma, coriacemente immutata, che dagli anni ’50 ha finito per cristallizzarsi nel tempo, tra lambrette galeotte e tavoli di trattoria dalle tovaglie a quadri bianche e rosse. L’apice di tale visione, vetusta e pateticamente romantica, si raggiunge nella scena girata all’interno di una barberia: la Roberts, assieme all’iseparabile svedese, assiste al taglio di barba e capelli del suo personale cicerone Giovanni (Luca Argentero, sic!) e di un amico di lui, il cui nome, udite udite è: Luca Spaghetti! Costui spiegherà ad una stupefatta Julia Roberts i cardini dell’ italianità, tra cui spiccano il dolce far niente, il mangiare gustoso e abbondante, e il gesticolare continuo, per la gioia del vecchio barbiere. Poi, usciti dal salone, i due romani e le due turiste s’imbattono in un tipico vicolo del centro adibito a teatro di posa; fruttaroli che trattano il prezzo di non so cosa urlando e (guarda caso) gesticolando come invasati; bellimbusti maleducati che sfrecciano in sella a una vespa e per poco non investono l’Argentero che, in un impeto di romanità, sbraita il più artificioso dei “gli mortacci tua!”. Non poteva mancare ovviamente il gruppo di tardoadolescenti arrapati che corre dietro alla preda dal bel sedere scandendo i passi con dei raffinatissimi “a bona! quanto sei bella! aho aspetta! Ma come te chiami”? Il tutto accompagnato da sottotitoli esplicativi. Isomma, da un momento all’altro, avrebbe potuto fare la sua meritata comparsa scenica un mandolino gigante vestito da Pulcinella intento a sedurre l’estiva biondona tedesca. Un Emilio Fede, tanto per intenderci. Dopo l’Urbe, il massacro del nostro già malandato Paese si conclude con un fine settimana a Napoli, quartiere Forcella, in cui la diva Julia si abbandona maliarda e impotente alla classica pizza margherita napoletana, spessa e succulenta. Un vero e proprio colpo di grazia per i fianchi… Ma un toccasana per l’anima della newyorchese depressa che, prima di lasciare l’Italia, scoprirà di aver messo su 12 chili, annotando l’aumento di peso sul suo cahier intime con un laconico “me cojoni!”.
Il viaggio nella prevedibilità prosegue in India, dove icontra un idraulico che vorrebbe tanto fare il poeta, e che le farà riscoprire la spiritualità nella preghiera e nel misticismo del culto dell’ostrica blu. L’esperienza omerica si conclude in Indonesia, a Bali. Ivi l’attende Felipe (Javier Bardem), fascinoso avventuriero che curerà il suo cuore (trattavasi di brutta aritmia cardiaca) aiutandola a ritrovare l’equilibrio, l’amore e quell’agognata pace interiore che la sua perfetta vita occidentale sembrava averle portato via per sempre. E pensare che aveva mai giocato alla Snai…
complimenti billy!!!
http://www.youtube.com/watch?v=By5XK2VLDKU
Meglio ”Eat, Pray, Queef”, by South Park…