Diceva Indro Montanelli: “Quando sento odore di bruciato, io sto dalla parte della strega”. In effetti si è avvertita una certa puzza di bruciato dopo che il Consiglio Nazionale Forense e l’Organismo Unitario degli Avvocati, l’establishment della categoria, hanno esultato per la cosiddetta “riforma forense” varata alla fine del 2012; il che mi ha spinto a mettermi dalla parte delle streghe per spulciare le “nuove” norme per i praticanti avvocati. Ho così scoperto che i praticanti senza santi in paradiso farebbero meglio a imitare i lemmings, le leggendarie creature che durante le carestie e la sovrappopolazione decidono di passare al suicidio di massa. Vediamo perché.
In primo luogo, la riforma stabilisce che la pratica forense “non determina di diritto l’instaurazione di rapporto di lavoro subordinato anche occasionale”. Una cosa illogica, perché il Governo da un lato ha puntato – nei mesi scorsi – sul tirocinio e sull’apprendistato come strumenti-base per ogni lavoro (avete presente lo spot con Fiorello?), mentre per i praticanti ha messo per iscritto che un contratto, i contributi previdenziali, le minime tutele spettanti a chi ha un rapporto di lavoro non sono la regola. Cosa aspettarsi da una riforma in cui l’instaurazione di un rapporto di lavoro, le tutele (anche minime) e tutto ciò che spetta a un lavoratore sono l’eccezione? Un bel modo per favorire il lavoro nero, l’evasione fiscale, l’arricchimento degli avvocati disonesti sulle spalle dei praticanti, l’assenza di ogni prospettiva di stabilità per i giovani. Inoltre, dato che la pratica forense dura 18 mesi e l’esame per diventare avvocato porta via come minimo un anno, se un praticante ha fortuna (ma proprio tanta!) potrà cominciare a lavorare autonomamente e a versare qualche contributo intorno ai 27 anni. Così sì che si aiutano i giovani!
Il nostro magnanimo legislatore, forse capendo di aver esagerato, ha però previsto che “al praticante avvocato è sempre dovuto il rimborso delle spese sostenute per conto dello studio presso il quale svolge il tirocinio”. Verrebbe da dire: grazie per la gentile concessione. Ma il problema è questo: forse i politici, abituati come sono ad interpretare il termine “rimborso” nel modo che abbiamo visto con i recenti scandali dei finanziamenti ai partiti, hanno dimenticato che per ottenere un rimborso bisogna dimostrare le spese sostenute. E appunto: come si dimostrano le spese di un praticante? In sintesi, le sue attività principali sono tre: udienze, giri nelle cancellerie (per deposito atti e documenti, ritiro di comunicazioni, informazioni sulle udienze e sui processi etc.), lavoro nello studio. Ora, per il primo anno di tirocinio il praticante per legge può andare in udienza solo col suo dominus e quindi non svolge alcuna attività propria “per conto” dello studio. Quando invece può cominciare a sostituire il dominus in udienza, con che faccia andrà a chiedere il rimborso di 20 euro di benzina? Lo stesso vale per i giri di cancelleria: come dimostra che il giorno X è andato in cancelleria a depositare o ritirare atti e documenti per conto del dominus? E come quantifica in termini di euro le 3-4 ore di fila che ho fatto in tribunale? Ma se anche dovesse avere qualche pezza d’appoggio per tutte queste “spese sostenute” e l’avvocato non gliele rimborsa, va al Consiglio dell’Ordine a protestare? Con quali procedure? Oppure deve andare da un altro avvocato e pagarlo affinché faccia un decreto ingiuntivo al suo dominus? E sarà costretto a cambiare studio ogni mese se trova avvocati che non gli rimborsano il dovuto? Peggio ancora per l’attività svolta nello studio: il praticante partecipa alla preparazione degli atti, dei documenti e dei fascicoli, ma a meno che non si iscrive alla Cassa forense e apre una partita IVA con tutte le relative spese, non figura, di solito, in nessun atto. Gli è quasi impossibile, quindi, dimostrare l’entità della sua attività, nemmeno quando magari cura intere pratiche da solo. In sintesi, tutto è lasciato alla discrezione del singolo dominus, e come si sa l’uomo per sua natura è buono, onesto e caritatevole, specie quando è messo di fronte al dilemma tra cacciare fuori i soldi oppure tenerseli in tasca tanto nessuno gli impone il contrario.
Qualcuno potrebbe obiettare che, tutto sommato, la riforma prevede che “Decorso il primo semestre, possono essere riconosciuti con apposito contratto al praticante avvocato un’indennità o un compenso per l’attività svolta per conto dello studio, commisurati all’effettivo apporto professionale dato nell’esercizio delle prestazioni e tenuto altresì conto dell’utilizzo dei servizi e delle strutture dello studio da parte del praticante avvocato”. Giusto, ma per cominciare c’è una parola grande come una casa: “possono”. A parte il fatto che in Italia già chi ha un contratto regolare fatica a far rispettare gli obblighi dei datori di lavoro, mi spiegate perché un avvocato, senza esservi obbligato per legge, dovrebbe mettere sotto contratto un praticante anche dopo il primo semestre, il primo anno, il primo lustro, il primo secolo? In tal modo solo i grandi studi legali, che hanno interesse a costruire una squadra stabile e professionale perché hanno molte pratiche da affidare personalmente al singolo praticante, ricorreranno allo strumento contrattuale; agli studi minori, dove l’avvocato può seguire personalmente tutte o quasi tutte le cause, resterà indifferente avere questo o quell’altro praticante, e quindi metterlo sotto contratto, almeno fino a quando il praticante sarà diventato avvocato (e infatti questa è la prassi che va per la maggiore).
Come se non bastasse, c’è molto di più: cosa vuol dire che l’indennità o il compenso vanno determinati “tenuto altresì conto dell’utilizzo dei servizi e delle strutture dello studio da parte del praticante avvocato”? Che se il praticante sfrutta “strutture” e “servizi” dello studio è lecito compensarlo di meno? Facile immaginare le conseguenze: stai sempre ficcato nello studio a lavorare? Sì, ma sfrutti le nostre attrezzature quindi ci dispiace, non puoi pretendere troppo. Vieni poco in studio perché hai un lavoro part-time per mantenerti, fai un master o altre attività per campare, ti organizzi con “strutture” e “servizi” tuoi? Ci dispiace: il tuo apporto è minore e quindi avrai poco. O niente, tanto posso anche non ricompensarti. Un vero capolavoro!
Con tutte queste premesse, come si fa a non pensare che la riforma penalizzerà coloro che la Costituzione definisce “i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi”, favorendo invece il nepotismo, il lavoro sommerso, la disoccupazione giovanile, lo spirito di casta e tante altre belle caratteristiche del nostro Belpaese?