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LIB(e)RO PENSIERO n. 26 – La manomissione delle parole

“Il primo atto rivoluzionario è chiamare le cose con il loro nome”. [R. Luxemburg]

«Le nostre parole sono spesso prive di significato. Ciò accade perché le abbiamo consumate, estenuate, svuotate con un uso eccessivo e soprattutto inconsapevole. Le abbiamo rese bozzoli vuoti. Per raccontare, dobbiamo rigenerare le nostre parole. Dobbiamo restituire loro senso, consistenza, colore, suono, odore. E per fare questo dobbiamo farle a pezzi e poi ricostruirle.
[…] parole sono una chiaveMi ha sempre affascinato l’idea che le parole – cariche di significato e dunque di forza – nascondano in sé un potere diverso e superiore rispetto a quello di comunicare, trasmettere messaggi, raccontare storie. L’idea, cioè, che abbiano il potere di produrre trasformazioni, che possano essere, letteralmente, lo strumento per cambiare il mondo.
Spesso, tuttavia, le nostre parole hanno perso significato perché le abbiamo consumate con usi impropri, eccessivi o anche solo inconsapevoli […]. Il poeta greco Ghiannis Ritsos ha detto che le parole sono come “vecchie prostitute che tutti usano, spesso male”: e al poeta tocca restituire loro la verginità.
[…] In nessun altro sistema di governo le parole sono importanti come in democrazia: la democrazia è discussione, è ragionamento comune, si fonda sulla circolazione delle opinioni e delle convinzioni. E – osserva Zagrebelsky – lo strumento privilegiato di questa circolazione sono le parole.
Il rapporto fra ricchezza delle parole e ricchezza di possibilità (e dunque di democrazia) è dimostrato anche dalla ricerca scientifica, medica e criminologica: i ragazzi più violenti possiedono strumenti linguistici scarsi e inefficaci, sul piano del lessico, della grammatica e della sintassi. Non sono capaci di gestire una conversazione, non riescono a modulare lo stile della comunicazione – il tono, il lessico, l’andamento – in base agli interlocutori e al contesto, non fanno uso dell’ironia e della metafora. Non sanno sentire, non sanno nominare le proprie emozioni. Spesso, non sanno raccontare storie. Mancano della necessaria coerenza logica, non hanno abilità narrativa.
[…] Un ulteriore segnale del grado di sviluppo di una democrazia e, in generale, della qualità della vita pubblica si può desumere dalla qualità delle parole: dal loro stato di salute, da come sono utilizzate, da quello che riescono a significare.
Tutti possiamo verificare, ogni giorno, che lo stato di salute delle parole è quanto meno preoccupante, la loro capacità di indicare con precisione cose e idee gravemente menomata.
Le parole devono – dovrebbero – aderire alle cose, rispettarne la natura. […] Socrate, negli ultimi istanti della sua vita, raccomanda a Critone : “Tu sai bene che il parlare scorretto non solo è cosa per sé sconveniente, ma fa male anche alle anime”. E tuttavia il “parlare scorretto”, la progressiva perdita di aderenza delle parole ai concetti e alle cose, è un fenomeno sempre più diffuso, in forme ora nascoste e sottili, ora palesi e drammaticamente visibili.
[…] Gli esiti concreti di questo meccanismo sono temibili: le parole possono costituire la premessa e la sostanza di pratiche manipolatone, ma anche razziste, xenofobe o criminali. […] la funzione creativa del linguaggio, la potenzialità delle parole, straordinaria e tremenda, di inventare il reale si manifesta continuamente: espressioni come giudeo, negro, terrone, marocchino attivano immediatamente l’ostilità, creano un altro estraneo e da respingere.
Parole svuotateÈ una interferenza sulla realtà – o, si potrebbe dire, una vera e propria creazione di realtà fittizie – che ogni giorno, spesso inconsapevolmente, sperimentiamo. Una manipolazione che passa attraverso la scelta delle parole, che investe tutti gli aspetti della vita associata e che, in molti casi, si fa violenza. Palese o, più spesso e più pericolosamente, occulta.
[…] Che si tratti del linguaggio ottenebrante del potere o del linguaggio menzognero di stolidi mezzi di comunicazione; che sia il linguaggio tronfio ma ossificato dell’accademia o il linguaggio meramente funzionale delle scienze; che si tratti del linguaggio malefico della legge priva di etica, o del linguaggio pensato per l’esclusione e l’alienazione delle minoranze, che occulta la sua violenza razzista sotto una facciata di cultura – il linguaggio dell’oppressione deve essere respinto, modificato e smascherato. È il linguaggio che succhia il sangue, blandisce chi è vulnerabile, infila i suoi stivali fascisti sotto crinoline di rispettabilità e patriottismo, mentre si muove incessantemente fino all’ultima riga, fino all’ultimo angolo della mente svuotata. Il linguaggio sessista, il linguaggio razzista, il linguaggio fideistico – sono tutte forme del linguaggio del controllo e del potere, e non possono consentire, non consentono nuova conoscenza, né promuovono lo scambio reciproco di idee.
[…] Le parole come minime dosi di arsenico, dall’effetto lentamente, inesorabilmente tossico: questo è il pericolo delle lingue del potere e dell’oppressione, e soprattutto del nostro uso – e riuso – inconsapevole e passivo.
Per questo è necessaria la cura, l’attenzione, la perizia da disciplinati artigiani della parola, non solo nell’esercizio attivo della lingua – quando parliamo, quando scriviamo – ma ancor più in quello passivo: quando ascoltiamo, quando leggiamo. […] La lingua, “se può muoversi liberamente”, è per natura ricca, perché si piega a esprimere, a dire tutte le esigenze, tutti i sentimenti umani: e dunque, come contravveleno, converrà ricordare che – non per pedanteria filologica, ma per autoconservazione – bisogna combattere l’impoverimento della lingua, la sciatteria dell’omologazione, la scomparsa delle parole. […] ammonisce Klemperer, “proprio le frasi fatte si impadroniscono di noi”.
Di noi e, aggiungerei, della politica, che, negli ultimi vent’anni, nel nostro Paese è stata più che mai dominata dalla ripetizione di slogan volgari ma virali e di metafore grossolane: “la Lega ce l’ha duro”; “la discesa in campo”; “il presidente eletto dal popolo”; “i magistrati comunisti”; “lasciatelo lavorare”; e infine quello più triviale e pericoloso, nella sua apparente, innocua banalità: “la politica del fare”.
D’altra parte, scriveva Primo Levi, “quante sono le menti umane capaci di resistere alla lenta, feroce, incessante, impercettibile forza di penetrazione dei luoghi comuni?”. La ripetizione continua, ossessiva, è uno degli stilemi principali di una lingua totalitaria, laddove il totalitarismo della lingua non va sempre e necessariamente insieme al totalitarismo della forma di governo. È, quella totalitaria, una lingua gonfia di odio e di isterismo, che si appropria delle parole e le usurpa, nutrendo con esse le minacce, le allusioni a complotti, i tentativi di creare e seminare tensione; una lingua che dice per poi negare di aver detto; che disprezza i cittadini allo stesso modo degli avversari politici.
[…] L’usurpazione, il furto delle parole è un fenomeno lento, progressivo e ricorrente.
Esso era già noto agli antichi, e fu riconosciuto anzitutto dagli storici.
Nel v secolo a.C. Tucidide descrive la guerra civile di Corcira (Corfù) e annota: “Cambiarono a piacimento il significato consueto delle parole in rapporto ai fatti. L’audacia sconsiderata fu ritenuta coraggiosa lealtà verso i compagni, il prudente indugio viltà sotto una bella apparenza, la moderazione schermo alla codardia, e l’intelligenza di fronte alla complessità del reale inerzia di fronte ad ogni stimolo: l’impeto frenetico fu attribuito a carattere virile, il riflettere con attenzione fu visto come un sottile pretesto per tirarsi indietro. Chi inveiva infuriato, riscuoteva sempre credito, ma chi lo contrastava, era visto con diffidenza. Chi avesse avuto fortuna in un intrigo era intelligente, chi l’avesse intuito era ancora più bravo; ma provvedere in anticipo ad evitare tali maneggi significava apparire disgregatore della propria eteria, e terrorizzato dagli avversari”.
Quattro secoli dopo, a Roma, Sallustio fa dire a Catone: “Davvero abbiamo smarrito da tempo il vero significato delle parole. Profondere i beni altrui vien detto liberalità, la spregiudicatezza nelle male azioni è sinonimo di forza d’animo; per questo lo Stato è caduto tanto in basso!”. E nel medesimo orizzonte concettuale, a distanza di oltre duemila anni, il poeta polacco Czeslaw Milosz, che sperimentò la persecuzione e l’esilio, osservava: “Chiunque detenga il potere può controllare anche il linguaggio, e non solo con le proibizioni della censura, ma cambiando il significato delle parole”.
Parole-che-volanoCambiare i significati – o, più semplicemente, confonderli e cancellarli – è la premessa per l’impossessamento abusivo di parole chiave del lessico politico e civile. Esse vengono distorte, piegate, snaturate, e infine scagliate con violenza contro gli avversari. Prima fra tutte, la nozione di democrazia è stata esposta, storicamente, alle manipolazioni più pericolose: logorata da un uso arrogante, questa parola, come ha segnalato Luciano Canfora, rappresenta un caso esemplare.
Alla fine degli anni Cinquanta Giovanni Sartori, in un libro dedicato a Democrazia e definizioni, insisteva sulla necessità di una conoscenza critica e non casuale della parola democrazia, perché “viviamo nell’età della confusione democratica, della democrazia confusa: e cioè nell’indefinito, manipolando e sentenziando su una democrazia che non sappiamo più bene cosa sia. […] Se uno stesso vocabolo può nobilitare pratiche tanto opposte e ripugnanti, è chiaro che quel nome non significa più nulla, e che non sappiamo di cosa stiamo parlando”. […] Insieme con democrazia, e forse con più determinazione e violenza, è stata in questi anni usurpata la parola libertà.
Libertà è parola difficile da maneggiare e – in parallelo con un’altra parola importante, ambigua e pericolosissima: popolo – più di altre soggetta agli abusi dei ladri di parole. Oggi, come nel passato. Già nella Roma repubblicana, “libertà e legalità sono parole altisonanti: dovranno essere spesso tradotte, a mente fredda, con privilegi e interessi costituiti”.
La “libertà” invocata dai ceti – o anche solo da singole persone economicamente dominanti al fine di salvaguardare interessi e privilegi particolari non è solo, come si intuisce, un tratto di Roma antica.
In un libro recente, significativamente intitolato ‘La libertà dei servi’, Maurizio Viroli ha messo in luce come la libertà dei cittadini, a differenza della libertà dei sudditi, non sia “una libertà dalle leggi, ma una libertà grazie o in virtù delle leggi. Perché vi sia vera libertà è necessario che tutti siano sottoposti alle leggi o, come recita il classico precetto, che le leggi siano più potenti degli uomini. Se invece in uno Stato c’è un uomo che è più forte delle leggi non esiste la libertà dei cittadini”. Tutt’al più, appunto, quella dei sudditi o addirittura dei servi. Già in alcune formulazioni del pensiero antico la somma libertas consiste nell’essere servi, ma servi della legge. Nel quarto libro delle Leggi Platone osserva: “Coloro che di norma vengono chiamati governanti io li ho chiamati ‘servitori delle leggi’, non per stravaganza nell’uso delle parole, ma perché sono convinto che in ciò soprattutto stia tanto la salvezza di uno Stato, quanto la sua decadenza”. […] Scrive Klemperer nella sua riflessione sulla lingua dei nazisti: “Le asserzioni di una persona possono essere menzognere, ma nello stile del suo linguaggio la sua vera natura si rivela apertamente”…».

G. Carofiglio, “La manomissione delle parole”, Rizzoli, Milano 2010.

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"Quando non si conosce la verità di una cosa, è bene che vi sia un errore comune che fissi la mente degli uomini. La malattia principale dell'uomo è la malattia inquieta delle cose che non può conoscere; e per lui è minor male essere nell'errore che in quella curiosità inutile".

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