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L’Intervista de L’Indifferenziato a Maurizio Landini

Torna in grande stile L’Intervista de L’indifferenziato con un numero davvero importante e significativo: Maurizio Landini, segretario nazionale della Fiom-CGIL, si racconta all’Indifferenziato. Prima di tutto mi preme ringraziare il nostro gradito ospite e il delegato all’ufficio stampa, Claudio Scarcelli, per l’attenzione riservata e concessa alla nostra associazione.

Il ruolo del sindacato e la distanza tra le nuove generazione ed esso, gli obiettivi della coalizione sociale, le politiche governative sul lavoro e la crisi di competitività del sistema Italia, questi sono alcuni degli argomenti trattati nel corso dell’intervista che sarà pubblicata sia nella versione pdf scaricabile (basta cliccare su questo link: Intervista_Maurizio_Landini)  sia integralmente in seguito. Parole che meritano sicuramente una lettura  approfondita e perché no un momento di confronto e discussione, ma sicuramente utili ad aprire un riflessione seria sul tipo di società odierna e sul modello di produzione attualmente vigente.

Buona Lettura e alla prossima intervista.

E’ necessario che il sindacato cerchi di rappresentare gli interessi di tutti i lavoratori, cercando una sintesi tra le loro diverse condizioni e collocazioni sul mercato del lavoro attraverso lo strumento della democrazia. Secondo il principio che i titolari del mandato sono i lavoratori stessi – tutti, non solo gli iscritti – e non le organizzazioni e quindi spettano a loro le decisioni finali su accordi e contratti che li riguardano.”  Maurizio Landini

L'intervista de L'indifferenziato a Maurizio Landini

La prima domanda è semplice ed immediata e se ci permette “naturale” e consona al suo compito. Quale dovrebbe essere il ruolo del sindacato? In questo momento c’è una effettiva coincidenza tra il concetto ideale e la realizzazione pratica dello stesso?

Il ruolo del sindacato potrebbe semplicemente essere desunto dal significato letterale della parola, che significa “insieme con giustizia”. Come a dire il diritto a coalizzarsi tra lavoratori nell’obiettivo della giustizia sociale. Su queste basi, a partire dallo spirito mutualistico, sono nate le organizzazioni sindacali quasi duecento anni fa. Poi la storia dei vari paesi le ha diversificate per struttura e posizionamento politico essenzialmente seguendo due filoni: il modello tradeunionistico inglese che ha come base l’aggregazione dei sindacati di mestiere; il modello federale o confederale europeo continentale, più legato alle organizzazioni politiche del movimento operaio. Il fine è rimasto sempre quello originario, la distanza tra il concetto ideale e la sua realizzazione pratica dipende dalle scelte che delle organizzazioni. A mio parere, per tendere a una coerenza tra mezzi e fini, è necessario che il sindacato cerchi di rappresentare gli interessi di tutti i lavoratori, cercando una sintesi tra le loro diverse condizioni e collocazioni sul mercato del lavoro attraverso lo strumento della democrazia. Secondo il principio che i titolari del mandato sono i lavoratori stessi – tutti, non solo gli iscritti – e non le organizzazioni e quindi spettano a loro le decisioni finali su accordi e contratti che li riguardano. Da questo punto di vista oggi c’è molto da fare per riallacciare i fili di una rappresentanza che si è allentata nel corso degli ultimi anni.

Come pensa di avvicinare i giovani al sindacato visto che le nuove generazioni si tengono sempre molto lontano dal mondo di queste organizzazioni giudicandole semplicemente distanti o inefficaci per risolvere i loro problemi di rappresentanza?

Credo che la relazione con i giovani non abbia bisogno di strumenti diversi da quella che dovremmo seguire con le altre generazioni. Se in questi anni il rapporto con le nuove generazioni è diventato più difficile rispetto al passato è perché non abbiamo dato sufficiente attenzione alle trasformazioni del mondo del lavoro e non siamo stati loro sufficientemente vicini. Il punto centrale è la condizione del lavoro, che si è molto frammentata e diversificata nell’era della globalizzazione e della rivoluzione digitale; da lì bisogna ripartire ed è chiaro che i giovani sono stati toccati maggiormente dalle trasformazioni in corso e perciò alla loro condizione va posta una maggiore attenzione a partire dal coinvolgimento diretto delle nuove generazioni anche a livello di quadro dirigente del sindacato. E credo che anche per il rinnovamento generazionale la democrazia sia la via maestra da seguire.

Riguardo le politiche sul lavoro quale Governo tra quelli Berlusconi, Monti, Letta e Renzi giudica peggiore?

Difficile fare una classifica di demeriti tra questi quattro governi. Il primo è sempre stato dichiaratamente ostile al sindacato confederale e agli interessi dei lavoratori con scelte politiche di stampo esplicitamente liberista. Gli altri tre, in continuità tra di loro, hanno messo in pratica la famosa lettera della Bce dell’estate 2011: riforma delle pensioni e innalzamento dell’età pensionabile, privatizzazioni del welfare, nuova flessibilità del lavoro, contenimento dei salari e attacco ai diritti a partire dalla libertà di licenziamento. Per questi tre governi vale ciò che si è portati a pensare le disgrazie: la più brutta è sempre quella che brucia ancora… l’ultima..

Il Nostro Paese, nonostante la buona performance relativa al 2015, è al 43 esimo posto nella classifica mondiale del Word Economic Forum sulla competitività. Quali sono le azioni prioritarie che da sindacalista si sente di proporre per risolvere questo problema? Come giudica la politica industriale italiana nell’ultimo decennio? Su quali aspetti della Ricerca & Sviluppo concerterebbe l’attenzione delle aziende?

Il problema dell’Italia dell’ultimo trentennio è l’assenza di una politica industriale degna di questo nome. Per un lungo periodo ha prevalso un’illusione finanziaria – che ha fatto la fortuna di pochi e prodotto la disgrazia di molti; poi, con la crisi, si è capito che sarebbero necessarie politiche di ricerca e sviluppo, di rinnovamento, ma nel frattempo il tessuto industriale del paese si è molto impoverito, consumandosi in una competizione povera, con prodotti poveri, avendo abbandonato da tempo i terreni in cui è maggiore il valore aggiunto. Così, tranne poche eccezioni, l’Italia di oggi è costretta a inseguire gli altri paesi ed è per questo che da noi l’uscita dalla crisi è più lenta che altrove. Servirebbe una scossa, un piano di investimenti pubblici e privati guidati da un disegno, da una visione, che sappiano riqualificare e rilanciare l’industria italiana. Ma serve un’idea di paese che metta in discussione il come e cosa si produce; un nuovo modello di sviluppo, insomma, fondato sulla qualità e sul bene comune, non speculativo e miope come quello che abbiamo subito in questi anni.

Come commenta la decisione del governo Svedese di ridurre la giornata lavorativa a 6 ore? E’ negli aspetti intangibili come la motivazione e il clima aziendale la strada per raggiungere standard qualitativi migliori?

Credo che la riduzione dell’orario di lavoro sia non solo utile, ma necessaria. Ridistribuire il lavoro che c’è è l’unica ricetta sensata in una fase di alta disoccupazione, ma rappresenta anche una prospettiva di lunga durata, visto l’aumento progressivo della produttività, l’innovazione tecnologica continua e il fatto che ormai esiste una crescente quantità di ore del tempo libero di ciascuno di noi che sono ormai invase da attività “lavorative” non formalizzate – da quelle di cura e di relazione a quelle intellettuali – che creano valore. Del resto la riduzione dell’orario di lavoro è scritto nella storia e la lotta per ottenerlo ha accompagnato ogni passaggio decisivo del progresso civile. Nello specifico italiano, poi, bisognerebbe iniziare con disincentivare la dilatazione dell’orario di lavoro a partire dagli sgravi e dalle facilitazioni di cui gode il lavoro straordinario: ci sono fabbriche in cui alcuni lavoratori sono sottoposti a turni e ritmi durissimi mentre altri sono messi in cassa integrazione o sono stati già licenziati. Un modo molto conveniente per abbassare il costo complessivo del lavoro e aumentare i profitti. Bisognerebbe rovesciare lo schema e la ridistribuzione del lavoro che c’è attraverso la riduzione dell’orario di lavoro ne è un passaggio necessario e utile.

In Europa in questi ultimi mesi ci sono state ottime performance dei partiti di sinistra, basti pensare a Syriza e Podemos su tutti, ma anche alle recenti elezioni in Portogallo e al trionfo di Corbyn tra i laburisti inglesi. In Italia, invece, si è ancora molto lontani da questi risultati, perché??

In Italia la sinistra è stata vittima di un doppio effetto-Berlusconi: da un lato una sotterranea fascinazione che l’ha portata a cancellare i propri valori e a scimmiottare l’avversario; dall’altro il far coincidere la propria azione politica con l’anti-berlusconismo. Una schizofrenia che l’ha portata a diluire i propri contenuti e a frammentarsi. Quel che la sinistra italiana non ha voluto o saputo capire è che il ventennio berlusconiano non era altro che la traduzione a casa nostra dello spirito del tempo liberista e, quindi, non un caso isolato, ma una parte coerente di un processo internazionale. In questo modo non ha saputo adeguare le proprie analisi e attuare le contromisure necessarie per rinnovare la propria identità e costruire delle risposte politiche alla “rivoluzione liberista”. Dividendosi così tra trasformismo e testimonianza.

Quali obiettivi si pone nel breve e nel lungo termine la “Coalizione Sociale”?

L’idea di Coalizione sociale vuole ridare energia e pratiche ai principi originari del sindacalismo e dell’associazionismo popolare, quello che quasi due secoli fa, misurandosi con la condizione insopportabile che vivevano milioni di persone private di tutto – a partire dalla possibilità di decidere sul valore, sui tempi e sulle modalità del proprio lavoro – si coalizzavano in forme mutualistiche, solidali e collettive per cambiare quella condizione e dare dignità alle loro esistenze. A distanza di tanto tempo, una regressione inaspettata e violenta, frutto della “rivoluzione dall’alto” della globalizzazione liberista ha riportato le condizioni di milioni di persone a uno stato di subalternità che mette in discussione e mina la loro dignità e i diritti conquistati nel percorso iniziato due secoli prima. E tutto questo avviene in un mondo in cui nessuno può considerarsi indenne da ciò che accade al suo fianco come a migliaia di chilometri di distanza, in cui tutti siamo chiamati a misurarci con problemi complessi e trasformazioni epocali, come testimoniano le migrazioni e le dinamiche demografiche di questi anni. Perciò servono valori forti e risposte coraggiose. Le sole che ci possono evitare di farci schiacciare dalle paure che sorgono di fronte a questi fenomeni così grandi. Agendo insieme, collettivamente, anche quando le paure oscurano i cervelli e danno sfogo alle pulsioni più sbagliate anche tra la tua gente, tra le lavoratrici e i lavoratori. Ma è con loro che dobbiamo difendere e praticare quel diritto di coalizione che per le lavoratrici e i lavoratori è sempre stata anche una necessità, l’unico strumento a disposizione, quello che ha costruito la storia del movimento operaio: unire ciò che la crisi divide.

Caporalato e morti sul lavoro non rientrano nello story-telling dei maggiori mass media ma purtroppo questi fenomeni fanno segnare una netta crescita in questo 2015. Sia a livello comunicativo che a livello esecutivo nei sindacati avete pensato una strategia per portare queste piaghe vergognose e inaccettabili per un Paese civile all’attenzione dell’opinione pubblica ma soprattutto per contrastarle sul nascere?

Purtroppo tutto ciò che non rientra nel mantra ottimistico del Presidente del Consiglio, viene rimosso. Basta ricordare che se l’occupazione nei primi otto mesi del 2015 è cresciuto di un piccolo 0,7%, i morti sul lavoro sono aumentati del 9,5% sullo stesso periodo dello scorso anno. Una statistica che dovrebbe far riflettere anche sulla qualità di questa presunta “ripresa economica”, magari interrogandosi su come e in che condizioni si lavora nell’Italia del 2015. Da questo punto di vista dobbiamo certamente fare di più contro il lavoro nero, il caporalato, gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali (in crescita pure loro, come succede sempre quando si è costretti ad accettare un lavoro purchessia e spesso senza la possibilità di discuterne le modalità). Ma per affrontare queste pieghe non serve tanto una strategia comunicativa quanto una relazione forte con i soggetti in carne e ossa, ricostruirne la rappresentanza e attraverso essa pretendere il rispetto delle leggi o premere per cambiare quelle norme che in questi anni hanno permesso il degrado delle condizioni di lavoro e di sicurezza sul lavoro.

Come si immagina la sua vita tra dieci anni? Cosa farà Maurizio Landini quando smetterà di essere un sindacalista?

Francamente mi riesce difficile pensarmi se non come sindacalista, anche se spero che fra dieci anni la Cgil sia diretta da una nuova generazione di sindacalisti, risultato di una riforma democratica dell’organizzazione e della rappresentanza che permetta a delegati e iscritti di scegliere i propri dirigenti senza il bilancino degli equilibri che governano le burocrazie.

 

 

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Umberto Zimarri
..Io, giullare da niente, ma indignato, anch'io qui canto con parola sfinita, con un ruggito che diventa belato, ma a te dedico queste parole da poco che sottendono solo un vizio antico sperando però che tu non le prenda come un gioco, tu, ipocrita uditore, mio simile... mio amico...

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